Rivoluzione plastic free: largo alla bioplastica

SCOPRIAMO INSIEME CHE COS’È IL PLA, LA BIOPLASTICA PIÙ DIFFUSA, E DOVE VA BUTTATO

Sacchetti per l’ortofrutta, imballaggi per prodotti alimentari, materiale per rivestire le riviste. Questi sono solo alcuni degli esempi di come la bioplastica è entrata a far parte delle nostre vite. Un materiale che, con la nuova direttiva europea contro l’uso delle plastiche monouso, si candida a divenire il protagonista della prossima rivoluzione plastic free. In realtà, quando parliamo di bioplastica dobbiamo tenere a mente che ci riferiamo a un mondo molto complesso. Ma cerchiamo di fare chiarezza.  

Secondo la definizione di European Bioplastics, per essere considerato bioplastica un materiale deve avere almeno una di queste due caratteristiche: essere sviluppato a partire da materie prime di origine biologica come cellulosa o amido, oppure essere biodegradabile, indipendentemente dalla materia prima d’origine. A queste si può aggiungere, anche, la compostabilità, cioè la proprietà dei manufatti di bioplastica di degradarsi fino a diventare compost agricolo se vengono lavorati in impianti di compostaggio con caratteristiche di temperatura e di trattamento adeguate.  

Già solo considerando questi aspetti, riconosciamo le differenze principali rispetto alla plastica: un materiale di origine fossile, che impiega molto tempo per degradarsi, addirittura secoli, e che è soggetta a un fenomeno di sminuzzamento progressivo che la riduce in microparticelle.  

Le bioplastiche attualmente più ricercate sono quelle che posseggono entrambe le caratteristiche, ovvero provengono da materia prima biologica e sono biodegradabili. Questo è il caso del PLA (acido polilattico), una bioplastica altamente virtuosa e attualmente la più diffusa sul mercato. Vediamo, dunque, che cos’è e come differenziarla correttamente.  

PLASTICA O PLA?

Anche se magari non ce ne siamo accorti, negli ultimi anni il PLA ha invaso gli scaffali dei nostri supermercati. Attualmente, viene utilizzato soprattutto per produrre bottiglie d’acqua, capsule per il caffè e involucri per gli alimenti ma anche per realizzare prodotti monouso come bicchieri e stoviglie.  

Il suo aspetto lo rende in tutto e per tutto simile alla plastica: colore bianco o trasparente, materiale rigido e resistente a olii, grassi e agenti chimici, peso ridotto e una grande versatilità di utilizzo. Ma con un vantaggio in più, invisibile ai nostri occhi: il PLA grazie alla sua origine naturale ha un ridotto impatto ambientale sia in termini di produzione che di smaltimento. Questo materiale è, infatti, un polimero che deriva da zuccheri naturali come amido di mais e canna da zucchero che gli permettono di trasformarsi in compost anche in soli 50 giorni. 

DOVE LO BUTTO…IL PLA?

Affinché il PLA non impatti sull’ambiente, sono necessarie delle accortezze. Prima di tutto deve essere conferito con i rifiuti organici, nel nostro bidone dell’umido, in quanto biodegradabile e compostabile al 100%. Servono poi precise condizioni di temperatura e umidità garantite esclusivamente all’interno degli impianti di riciclo e compostaggio: la temperatura deve essere superiore ai 60 gradi e l’umidità maggiore del 20%. Questo vuol dire che tale materiale non scompare se gettato semplicemente a terra.   

Ma se per errore buttassimo una bottiglietta in PLA nell’indifferenziato? Questa finirebbe in discarica e lì rimarrebbe per molto tempo poiché mancano le condizioni per la biodegradazione. Basti pensare che in condizioni non ottimali per degradarsi da solo richiede tra 1 e 4 anni.